Teatro Regina Margherita
Una lapide collocata su una delle lesene alla sinistra di chi entra nel vestibolo del teatro comunale “Regina Margherita” di Caltanissetta, ricorda l’anno di inizio dei lavori di costruzione del nostro teatro e il nome dei principali iniziatori di quell’avventura culturale e mondana che, partendo dalla belle-époque, percorre l’intera storia d’Italia fino ai nostri giorni, riproponendo i soliti problemi di utilizzazione e di gestione.
Il teatro Magherita, ultimato nel 1873, si trova in avanzata posizione cronologica rispetto ad altri teatri dell’isola, in quanto precede di ventiquattro anni il Comunale di Siracusa (1897), di diciassette anni il Bellini di Catania (1809) e di ben ventidue anni il Teatro Massimo di Palermo (1895).
Non è dunque l’ultimo arrivato fra i teatri della Sicilia (ma anche d’Italia: il Teatro Costanzi di Roma venne nel 1880, cioè sette anni dopo). L’idea di un teatro comunale a Caltanissetta, per la verità, parte da un po’ più lontano: già nel dicembre del 1859 il decurionato di Caltanissetta deliberava un indirizzo di ringraziamento a “Sua Maestà Sovrana” Francesco II per aver accordato la costruzione dell’edificio municipale con annesso teatro, e la contestuale supplica di potere apporre a questo il nome di “Teatro Santa Sofia” in onore della sua “augusta consorte” Maria Sofia Wittelsbach di Baviera. L’ingegnere Barbera, nel 1873, completava l’edificazione del teatro al quale intanto, mutate le vicende politiche (nel 1860 la Sicilia era già passata al regno d’Italia), era stato dato il nome della principessa Margherita (non ancora regina; lo divenne nel 1878, alla morte di Vittorio Emanuele II), consorte di Umberto di Savoia.
L’inaugurazione del teatro, avvenne il 16 marzo del 1875 con il Macbeth di Verdi, in una edizione, a quanto si legge sui giornali dell’epoca, molto modesta; ma non tanto quanto, al successivo 30 marzo, “Il Birraio di Preston” di uno sconosciuto musicista, Federico Ricci, un rossiniano, la cui rappresentazione venne imposta, a quanto pare, dal prefetto dell’epoca, il fiorentino cavalier Fortuzzi. Intorno a questo evento si registra la deposizione dinanzi alla Commissione d’inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia, 1875-76, (non è quella sulla mafia, di Fracchetti e Sonnino) di Giovanni Mulè Bertolo, che accusa Fortuzzi, in modo inesatto, di avere imposto quest’opera addirittura per l’inaugurazione del teatro.
Nell’equivoco viene trascinato anche Andrea Camilleri, scrittore, romano di adozione, ma siciliano di nascita (è di Porto Empedocle) che ne fa un gustosissimo racconto, proprio “Il Birraio di Preston”, edito da Sellerio, nel quale in una selva di intrecci fantastici e di singolari avvenimenti – c’è persino l’incendio del teatro e, prima ancora, l’intervento della polizia a cavallo all’interno del teatro stesso per sedare i tumulti provocati dallo scontento per quella schifezza di spettacolo che fu “Il Birraio” – si descrive la storia delle prepotenze del Fortuzzi. Il racconto è certamente divertente, anche se inattendibile: quando mai si sono visti i nisseni ribellarsi per alcunché, e fino a questo punto! Incomincia quindi, dopo i primi spettacoli, e dopo interruzioni a volte molto prolungate, la serie delle concessioni a privati, con convenzioni che prevedevano di tutto: impegni per restauri parziali, per ammodernamenti (nel 1916 una società nissena offriva tra le altre cose la trasformazione ad energia elettrica dell’impianto dell’illuminazione del teatro, ancora a gas, in cambio della concessione per farne un cine-teatro), per impegni sulle qualità delle rappresentazioni ed altro.
Certo l’intervento dei privati riusciva a volte ad arricchire la città di qualche spettacolo colto e interessante. C’è ad esempio il periodo intorno agli Anni trenta, nel quale operò il nisseno maestro Ayala, sostituito da Gino Marinuzzi, il quale fu protagonista di varie stagioni liriche nel teatro Margherita: in quella del 1929 presentò la Turandot, opera postuma di Puccini, che veniva eseguita per la seconda volta in Sicilia dopo la prima rappresentazione al Massimo di Palermo. Ci fu molta commozione quando, dopo la scena del trasporto di Liù morta per amore, il maestro, come Arturo Toscanini alla prima dell’opera, nel 1926, al teatro alla Scala, ferma l’orchestra e, rivolto al pubblico, dice: “Qui finisce l’opera del compianto Puccini, chiedo un minuto di raccoglimento”. Quindi conclude con l’ultima scena elaborata da Franco Alfano.
Sono gli ultimi guizzi del Margherita, viene poi l’impiego massiccio nelle manifestazioni del regime, la prepotente ascesa del cinema sonoro come spettacolo di massa, la guerra, lo spezzonamento del tetto del palcoscenico, l’abbandono, l’ultima avventura con l’ultimo gestore che ne fa una scadente sala cinematografica, affitta l’atrio ad un bar, completa il degrado del locale fino a quando, il 3 marzo del 1970, la Commissione di vigilanza ne revoca l’agibilità.
Compito del restauro, iniziato coi fondi previsti dalla L.R. n. 48 del 28 novembre 1970, era quello di restituire il teatro alla sua normale utilizzazione, puntando per prima cosa, al riottenimento del permesso di agibilità. Bisognava dunque portarlo al rispetto delle norme dettate dalla circolare del Ministero dell’Interno n. 16 del 15 febbraio 1951 e successive modifiche ed integrazioni; questo comportava il totale abbandono delle strutture lignee di sostegno del vecchio teatro e la sostituzione di esse con strutture inerti al fuoco. Tutte le strutture portanti del Margherita sono state quindi rifatte con conglomerato cementizio armato, sia nelle parti di sostegno verticali che in quelle orizzontali. Si rese inoltre necessario rifare di sana pianta tutti gli impianti elettrici, tecnologici e le attrezzature scenotecniche, utilizzando tutto ciò che intanto era diventato dominio delle nuove tecnologie teatrali. Gli impianti quindi non sono stati soltanto rifatti, ma anche ammodernati e computerizzati.
Il teatro Margherita, tenuto conto di tutte le attrezzature di cui è dotato, nasce dunque non come un teatro destinato soltanto alla recezione di spettacoli di giro o comunque di provenienza esterna, ma come un teatro in grado di produrre spettacoli, cioè una entità economica e produttiva. È appena il caso di sottolineare cosa può, in una piccola città come la nostra, rappresentare un teatro lirico operante, con un ente autonomo ben strutturato e in grado di entrare nel giro dei finanziamenti pubblici, ai quali il nostro teatro può difatti attingere perché ne ha largamente i requisiti richiesti dalla legislazione attuale. Occorre soltanto essere persuasi che un teatro che produce spettacoli è da considerarsi alla pari di una grossa azienda. Per quanto riguarda le decorazioni, in particolare tutti i rivestimenti della sala, i parapetti dei palchi, le colonnine di sostegno, le cornici, i capitelli, l’arco armonico, le paraste del proscenio, anch’esse interamente in legno, dunque non riproponibili per il rispetto dell’attuale normativa antincendio, esse sono state rifatte con stucco di gesso misto a lana di roccia, la cui risposta, ai fini acustici, è molto simile a quella del legno. In sostanza in tutto il restauro si è tenuta presente la primaria esigenza della sicurezza insieme a quella, non meno importante si assicurare allo spettatore un ambiente confortevole e misuratamente fastoso, che costituisca la giusta cornice per spettacoli colti, quali quelli che si auspicano nel futuro del rinnovato teatro Margherita.
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