Fonte: La Sicilia – articolo di Walter Guttadauria
Domani sono esattamente 450 anni da quando crollò il castello di Pietrarossa, una delle più antiche e rappresentative presenze con un ruolo di rilievo nella nostra storia, e in quella della Sicilia. La notte del 27 febbraio 1567- così tramandano le cronache –
la roccaforte “improvvisamente” rovinò, forse per un movimento tellurico, più probabilmente per una frana, un cedimento dovuto alla secolare erosione delle acque in quella valle che dominava. Si perdeva per sempre, così, l’immagine di quello che sarebbe divenuto il simbolo nisseno per eccellenza, riportato nello stemma cittadino.
Su Pietrarossa e la sua storia si sono avvicendati, in questi secoli, numerosi ricercatori e storiografi, e non soltanto locali, elaborando tutta una serie di ricostruzioni (e di ipotesi sull’originaria immagine), mentre quanto rimasto dei ruderi ha continuato negli anni, lentamente ma inesorabilmente, a sgretolarsi, il che è anche cronaca dei nostri giorni.
Facciamo qui una sintesi delle tante, e divergenti, ipotesi formulate circa le origini della roccaforte, costruita sfruttando la morfologia naturale del terreno: le sue originarie torri (presumibilmente rivestite di mattoni rossastri, da qui la denominazione) erano infatti edificate su tre guglie di roccia calcarea dominanti la sottostante vallata.
Alcuni storici fanno risalire il castello alla dominazione araba, altri addirittura agli antichi Sicani. Tommaso Fazello, diligente storico e geografo della Sicilia, venuto in visita a Caltanissetta nel 1546 (cioè quando la roccaforte è ancora integra) lo giudica decisamente di costruzione saracena. Al di là delle origini, rimane comunque il fatto che Pietrarossa si afferma come uno dei castelli più importanti nella storia della Sicilia, sia per la sua ideale posizione strategica, sia per gli eventi che in esso si svolgono. Di notizie storiche certe si ha riscontro solo a partire dal 1087 quando il conte Ruggero, avviata la dominazione normanna sull’isola, prende possesso del castello che da quel momento sarà al centro di importanti vicende, per quasi cinque secoli.
Il primo nome che la tradizione tramanda, relativamente alla rocca, è quello di Adelasia, figlia di Matilde e nipote di Ruggero, morta nel 1150 e sepolta nella cappella del castello.
Sempre la tradizione storica vuole che il suo cadavere venga ritrovato nel 1600 tra le rovine, con una corona a cingerle il capo ed un’incisione riferente il suo nome e la sua progenie.
Ai Normanni succedono gli Svevi e nel 1268, decapitato a Napoli Corradino, ultimo rampollo di quella dinastia, la Sicilia è sottomessa al dominio angioino: Nicolò Maletta, parente e devoto di Corradino, asserragliatosi a Pietrarossa, oppone resistenza alle armi angioine al comando di Guglielmo d’Estendard ma, tradito dai suoi, cede la fortezza ai francesi ed è da questi messo a morte.
Dopo la cacciata degli Angioini dalla Sicilia sull’epilogo dei Vespri, l’isola passa sotto il dominio degli Aragonesi e in questo periodo il castello nisseno raggiunge il massimo del suo prestigio, essendo scelto come sede di tre Parlamenti generali siciliani: nel primo (1295) i baroni dell’isola proclamano Federico II d’Aragona re di Sicilia.
Nel 1361 re Federico III viene costretto dai baroni ribelli, facenti capo alle famiglie dei Chiaramonte e dei Ventimiglia, a rifugiarsi nella fortezza di Pietrarossa da dove convoca il parlamento per tentare di arginare le incessanti lotte intestine nell’isola: nell’ottobre di quell’anno chiaramontani e ventimigliani danno l’assalto al castello, ma in aiuto di Federico III e della regina Costanza accorrono i nisseni fedeli al sovrano, che mettono in fuga i baroni ribelli. Morto Federico III nel 1377, l’anno dopo Pietrarossa accoglie nuovamente i baroni siciliani, chiamati a designare i quattro “vicari” per la reggenza temporanea dell’isola, fino alla maggiore età della figlia del sovrano scomparso, Maria.
Nel 1407 la fortezza passa ai Moncada, che ottengono anche il possesso del contado di Caltanissetta in cambio di quello di Agosta. Dopo il crollo del 1567 sono stati vari, come detto, i tentativi di ricostruire l’originaria fisionomia della fortezza: indicativa (ma non troppo) quella riportata nella grande carta geografica d’Italia, disegnata da un monaco del Cinquecento e conservata nella Galleria delle carte geografiche del Vaticano, ove il castello nisseno occupa tre grandi ambienti ed è sopraelevato su un imponente bastione di roccia.
In questi ultimi anni i suoi ruderi sono stati oggetto di interventi di restauro conservativo e di consolidamento, considerato il costante (e purtroppo sempre attuale) pericolo di caduta di frammenti di roccia sulle cappelle del sottostante cimitero Angeli: si è provveduto, così, e a più riprese, ad “ancorare” tali frammenti e a collocare reti paramassi. Ma l’erosione di quanto rimane della vecchia rocca continua.